Era un samaritano

10 Ottobre 2010 Nessun Commento     

Tornare a celebrare l’Eucaristia vuol dire tornare a ringraziare, non un ringraziamento qualunque, o, come si dice in greco, un “eu-charis”, un bel ringraziamento, un ringraziamento motivato, entusiasta.
Anche la confessione dei nostri peccati, dei nostri limiti è un ringraziamento; perché non consiste nella macerazione dei nostri sensi di colpa, ma nell’aprirci all’amore di Dio, alla riconoscenza per il suo perdono…

Gloria…

Il nostro è un canto di riconoscenza e ringraziamento a Dio.
E’ facile, molte frasi si ripetono, le canta prima il coro e poi le ripetiamo tutti insieme.
La nostra bocca esprima la pienezza del cuore.


LETTURE

Protagonisti della prima lettura e del brano del vangelo sono due “stranieri”, due uomini cioè estranei alla razza, alla cultura, alla religione, del popolo ebreo.
Forse questa loro estraneità li rende capaci di credere, di affidarsi alla parola di Cristo, una parola. Ascoltiamo!

OMELIA

Un suggerimento, uno spunto, uno solo fra i tanti che queste letture possono offrire, e che certamente ognuno di noi coglie durante l’ascolto diretto della Parola; un particolare che non solo è denso di attualità ma che arricchisce ulteriormente il cammino che stiamo insieme percorrendo in queste settimane…
Come i primi discepoli, seguendo il vangelo di Luca, anche noi stiamo andando dietro a Cristo, perchè ci aiuti a credere,ci aiuti a fidarci di Lui.
Ricordate domenica scorsa? “Signore aumenta la nostra fede…”
Ma esiste una condizione previa, un atteggiamento di fondo che ci permette di ricevere il dono della fede?
Precisiamo.
Quando diciamo “fede” non indichiamo un vago sentimento religioso, una credenza generica, ma qualcosa di più impegnativo: la disponibilità a fidarsi di Dio, il desiderio di far nostri i suoi progetti, il proposito di servirci dei mezzi da Lui indicati per realizzarli; questa fede che al di là dei riti, delle credenze, delle formule, si incarna nella vita, si impegna a realizzare la paternità di Dio attraverso la fraternità e l’uguaglianza fra gli uomini.
Bene, se questa è la fede, qual è la condizione per riceverlo, questo dono?
Ecco il particolare che ci aiuta: l’abbiamo messo davanti ai nostri occhi:
Era un samaritano.
E’ un samaritano l’unico, fra i dieci guariti, a tornare indietro, a stupirsi, a ringraziare, ad ottenere la fede che salva.
Un samaritano.
A noi questa parola dice forse poco. Siamo fuori dal contesto.
Il samaritano era per gli ebrei uno scomunicato, una persona con la quale non avere contatti, uno straniero.
Forse oggi, con la carica di razzismo che più o meno consciamente ci ritroviamo addosso, riusciamo a capire meglio la carica provocatoria che queste parole assumevano ai tempi di Cristo.
Senza preoccuparsi affatto di scandalizzare Egli non perde mai l’occasione di sottolineare la disponibilità degli estranei ad accogliere la sua parola, un’apertura spesso contrapposta alla ostilità, al formalismo, alla grettezza, alla chiusura mentale dei fedeli, dei credenti, dei suoi concittadini, dei suoi parenti…
E’ uno straniero questo lebbroso che torna indietro, è uno straniero quell’altro samaritano che diversamente dal sacerdote e dal levita si prende cura del viandante lasciato mezzo morto dai briganti in mezzo alla strada.
Erano stranieri quel centurione romano e quella donna cannacea davanti ai quali Cristo esclama: “Non ho trovato tanta fede in Israele”.
In qualche modo anche Cristo era uno straniero. Si sentiva un estraneo, nella sua famiglia, nella sua città, nella sua patria; (nessun profeta è accettato nella sua patria, ebbe a dire, fra la sua gente, fra i suoi parenti); apparteneva sì alla società ed alla religione ebraica, ma, se leggiamo bene il vangelo, ci accorgiamo che questa appartenenza gli sta stretta: la guarda dall’esterno, ne prende le distanze, la valuta, la giudica, non se ne fa condizionare. Cristo non si lascia mai integrare. Forse per questo nasce fuori dalla città, è rifiutato dalla città, e muore fuori dalle mura.
Perché tutto questo?
Perché Cristo, prima di essere qualunque cosa, prima di appartenere alla sua famiglia, di essere figlio, di essere israelita, di essere ebreo, è un uomo, come Lui stesso ama definirsi, il “Figlio dell’uomo”.
In lui, l’essere e il sentirsi uomo precede ogni determinazione successiva.

Da questo nasce il cristianesimo, almeno quello più genuino: davanti a Dio non c’è più né ebreo, né greco, né romano, lo dirà Paolo sulla scia di Gesù.
Noi dovremmo dire oggi: non c’è più americano o europeo, arabo o ebreo, orientale o occidentale, cinese o australiano.
Ecco perché è necessario diventare, sentirsi stranieri per ricevere o dono della fede.
Se per fede, come dicevamo poco fa, intendiamo la costruzione nella propria vita della dimensione dalla paternità di Dio e della fraternità umana, io non posso assolutamente pensare questo e quindi farlo se non sono anch’io uno “straniero”, se non acquisto quella dimensione della esistenza che viene prima delle successive determinazioni in cui la storia e il luogo della mia nascita mi inserisce.
Prima di essere moglie o marito, padre o madre, operaio o insegnante, prete o avvocato, prima di essere siciliano o lombardo, italiano o tedesco, leghista o comunista, prima di essere cattolico o musulmano sono un uomo, sono una donna!
Questa è una novità, un dato fondamentalmente cristiano, che gli stessi cristiani nel passato, purtroppo, nel corso della storia hanno dimenticato, vantando dai tempi della conquistata dell’America ai notti giorni, la superiorità dell’Occidente…
E non è che oggi siano cambiate molto le cose: Movimenti politici fondamentalmente razzisti… e sono così perché vogliono difendere l’identità cristiana, il crocifisso nelle aule scolastiche non come segno di fede ma come distintivo di una identità culturale di difesa dei valori dell’occidente, la difesa delle radici cristiane di un Europa in cui si fatica ad accettare e integrare lo straniero, sono tutti segni di una fede, direi meglio di una credenza che ha perduto la sua prima ragion d’essere: l’affermazione perentoria di Cristo CHE TUTTI GLI UOMINI, AL DI LA’ DI OGNI LINGUA, REAZZA, POPO,LO E RELIGIONE, COMNE DICE L’APOCALISSE, SONO FIGLI DI DIO.

Questo unisce, lo dicevamo già la volta scorsa, tutto il resto divide!
Non vorrei confondere le vostre idee, ma, a volte, la scelta cristiana coerente diventa destabilizzante, perché l’essere stranieri fa tremare le fondamenta di ogni società che si fonda sulla appartenenza.
Ma o la facciamo nel fondo di noi stessi questa scelta e diventiamo inquieti, o non la facciamo e diventiamo corrotti perché conniventi di qualunque ingiustizia che privilegia un uomo a scapito di una altro uomo.
Leggevo ieri questa storia.
Una signora anziana si alza nella sala per pormi una domanda. Racconta che fuori dal supermercato che frequenta, normalmente ci sono alcuni giovani africani che chiedono qualche moneta (quella del carrello,quella del resto…) ma che ogni giorno c’è anche la presenza della polizia che glielo proibisce, controlla i documenti, minaccia di arrestarli. La signora prosegue raccontando che più volte ha cercato di dissuadere i poliziotti da questa sorta di accanimento contro quei ragazzi e che la risposta è sempre stata: “C’è una legge e dobbiamo farla rispettare. È la legge, signora, la legge”. Si fa pensierosa la signora e riferisce che due giorni fa è andata in uno studio medico per sottoporsi a una visita e che dopo aver pagato una somma esosa, il medico non gli ha fatto la fattura. Alla sua rimostranza – manco a dirlo – il professionista ha risposto che in quel caso avrebbe dovuto aggiungere l’IVA e che, alla fine dei conti, a lei la fattura non serviva. Niente di nuovo sotto il sole. La signora istintivamente si è guardata attorno per cercare i rappresentanti delle forze dell’ordine che potessero far rispettare la legge. La legge. Ha concluso, la signora, che non ci sono appostamenti quotidiani dietro le porte dei professionisti che non rispettano la legge. Rappresentanti di uno Stato forte con i deboli e debole con i forti.“Perché i ricchi possono evadere il fisco e i poveri nemmeno chiedere l’elemosina”.

Certo: dobbiamo tenere i piedi per terra.

Non possiamo vivere da apolidi.
Non possiamo improvvisamente ritrovarci senza famiglia senza patria, senza chiesa, senza partito…

Ma, da veri uomini e vere donne, dobbiamo rompere dall’intero gli schemi e le gabbie dentro le quali ci siamo barricati.

Ed allora: io apparterrò alla mia famiglia, ma la contesterò quando questa famiglia si chiude al mondo.
Apparterrò alla mia patria, ma mi sentirò cittadino del mondo, quando essa si schiererà per la violenza, l’ingiustizia e la guerra.
Apparterrò al mio partito, ma mi ribellerò al partito quando il partito (è la sua definizione. partito viene da “pars”, HANNO FIONDATO L’86°… vi siete mai chiesti, perché, nonostante il bipolarismo ci sono tanti partiti nel nostro paese?), farà l’interesse di una parte e non gli interessi di tutti.
Farò parte della mia chiesa: ma la criticherò e ne piglierò le distanze quando essa privilegerà se stessa, dimenticando che esiste solo per ricordare al mondo che ogni uomo è figlio di Dio.
E’ difficile convertirsi a questa dimensione, sul piano familiare, sul piano ecclesiale, ancora di più sul piano sociale e politico.
Se siamo integrati tutto va bene.
Ma se ci sentiamo un po’ stranieri davanti alla corruzione, davanti alla politica degli affari, se ci sentiamo stranieri nel nostro quartiere, nel nostro palazzo, nella nostra stessa casa, saremo più vicini ai catanesi dei quartieri abbandonati, ai carcerati di Piazza Lanza, al marocchino che ci pulisce il vetro, al profugo che attraversa la nostra strada…
Questo è l’occhio della fede che capovolge il mondo.
E’ forse questo l’occhio, e non mi avvicino di più ai particolari, di cui oggi avremmo bisogno per non innescare una spirale di violenza e di terrore che ci circonda da ogni parte.
Preghiamo perché Dio ci dia il coraggio di desiderare la dimensione dello straniero e di realizzarla nella nostra vita.

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